:: Fabio Nardi: La morte per acqua di Karoline Knabberchen con Schubert | |
Fabio Nardi LA MORTE PER ACQUA DI KAROLINE KNABBERCHEN CON SCHUBERT “L’acqua del mare non è come la vediamo, non come la afferrano i sensi. L’acqua che mi vede che inganna i miei occhi il mio udito le mie mani se in essa le immergo conduce una vita segreta, anche per me, che vuole rivelarmi. Il paziente lavorìo delle correnti, le loro oscure armonie, non sono altro che l’intreccio fluido e inafferrabile di un eterno cadere del tempo. In cui galleggio come moneta di sughero che soltanto io posso spendere per capirmi. L’acqua del mare con le sue correnti, i suoi gorghi, con quanto accoglie acqua dal cielo e dai fiumi, vuole rivelarmi il moto d’essa ciecamente teso verso una composizione d’impossibile pace. Tra me e questa acqua intercorre un messaggio, potrei chiamarla Natura, ma sbaglierei, farei della filosofia a basso voltaggio; l’acqua semplicemente, a me donna d’Engadina e di montagna, con un uomo amato cresciuto sul mare pisano, semplicemente sente il bisogno di rivelarmi la fatica del proprio esistere, di trasmettermi quanto la mia singolarità a essa appartiene invitandomi ad afferrarla specchiata. Capisco quanto l’acqua vuole confidarmi perché il mio orecchio e i sensi sono sempre in ascolto. Questo udire il richiamo mi ha spinto a scrivere a volte quella che altri chiamano poesia o riflessione metafisica. Per me è affidarmi inerme, oltre la mia persona e postura nel tempo, a una carità necessaria, una grazia divinatrice; del possesso di me stessa me ne spoglio, lo affido alle correnti; nessuna effimera sicurezza più mi difende, davanti all’oceano, sono esposta a ogni smarrimento di senso per quanto ho vissuto, amore compreso, e a ogni terrore dato da quanto non ho capito. Ho varcato, lo so, la frontiera liquida; essa si sposta continuamente oh se si sposta!, limite che non avrei mai dovuto varcare, e ciò formula la domanda mia di dramma. Cosa posso aggiungere, a questa tua pagina, ultima, Karoline, iniziata ad Anversa, nel febbraio gelido del 1984, e terminata in Terra di Norvegia, nelll’agosto dello stesso anno? Forse la Sonata in La minore op. 143 di Franz Schubert. Sì! è proprio adatta. “Guarda, in frantumi nella polvere / in preda a un terribile dolore / giace la mia torturata esistenza / prossima all’eterna distruzione” recita l’incipit di Mein Gebot (la mia preghiera) che Franz Schubert scrive nel 1823. Questo sublime gridato melodrammatico in candore virato è frutto del dolore dato anche da una malattia venerea contratta da Schubert. Eco del bordello. Dove forse l’aveva sospinto qualche amico preoccupato della sua verginità non sciolta dall’amplesso. Dato che di fidanzamento e di possibile matrimonio con la soprano Thèrese Grob non si discuteva più. Tutto svanito. Questa tristezza non consolabile si era trasfigurata anche nella Sonata in La minore op. 143 - la tonalità del destino inclemente e ostile ravvisato dal fanciullo trentenne Franz - nel febbraio dello stesso anno. Febbraietto corto e maledetto. Che sia la Morte temuta e insieme desiderata protagonista della Sonata è indubbio, ma è una Morte che tiene sulle spalle non la mantella nera bensì quella della poesia, perché sia Schubert che Karoline Knabberchen quando invitano la Morte a dialogare con loro, sono poeti. Uno dei suoni e l’altra della parola metafisica . Però non bisogna dimenticare che Schubert compone la segreta cifra della Sonata, o Grand Sonata come la definì Diabelli, anche sul dolore fisico della malattia venerea, di qualcosa di volgare, di molto pratico e materiale. Così Karoline Knabberchen nel suo viaggio europeo con approdo al gorgo delle Lofoten il 20 agosto 1984 ha sfiorato e a volte è stata macchiata dalla volgarità del mondo, dalla sua feccia, dai suoi scoli, e ha saputo rivelarli in quanto scrive nel diario “Formiche sui polsi”. È questa dicotomia che Fabio Nardi, che tanto la ama, non intese a pieno. Non riuscendo per questo a proteggerla. Ciò è quanto il fidanzato confida a se stesso. E che stasera, nella fine di maggio, dolorante e smarrito come non lo era da tempo, vuole indagare senza risparmiarsi nulla. Nessuna protezione nella sera e notte che viene.
Karoline Knabberchen mi fece ascoltare spesso la Sonata in La minore op 143 dal disco nel suo impianto stereo a Guarda, Arrau al pianoforte; e aveva con sé anche una musicassetta per ascoltarla nel nostro viaggio in Svezia e poi in Norvegia. Cosa la catturava in questa sonata oltre alla calamita d’una sofferenza che può portare a disperare? Perché mi disse che la cifra segreta di questa sonata stava nel pianoforte costretto a inseguire effetti orchestrali nei primi due movimenti ma non nel tempo conclusivo? Mi sembra un riassunto col suono della filosofia ultima di Schelling, della Filosofia della libertà. Io non intendevo. E non chiesi altre spiegazioni. Tanti anni dopo studiando il linguaggio della musica e l’opera di Schubert così come quella del filosofo Schelling tanto caro alla mia fidanzata, cerco di afferrare la cifra oscura di questa sonata. Come lei mi suggerì. È una necessità la mia di capire, di tradurre grazie a questa musica, in qualcosa di accettabile e sopportabile, il dolore che ho vissuto in questi primi mesi dell’anno. Nel gennaio nel febbraio nella primavera gelata che tengo ancora sulle spalle. Il perché del male, dell’equivoco, del bene che si smarrisce. E Karoline torna a donarmi protezione. E posso dispiegarla se ascolto la drammatica sonata di Franz Schubert. Ora è palese. Devo passare da qui. Dal suono e dalle parole che ne ricaverò. Il pianoforte che s’impone di somigliare a ogni effetto orchestrale. Il singolo che nell’orchestrazione divina scopre anche il caos. E che questo caos è il fondamento di Dio. Il Male, l’Errore, sta anche in Dio. Riconoscendolo Dio si riconosce e si trasforma in perfetto ordine, supera l’angoscia, il male che porta disordine diventa bene. Bene assoluto. Dio eternamente si deve differenziare dal male. E sulla terra il male, ti cattura, perché non sei capace di vincere il disordine, il singolo può non farcela, per raggiungere la luce e il bene. Disperare di riuscirci. Questa disperazione prese Karoline Knabberchen, si sentì strumento, pianoforte, incapace di reggere ogni aspetto orchestrale del finito col suo caos, con gli equivoci, con quanto insidiava l’assoluto dell’amore. Come potevo capire io, un povero vecchianese e figlio d’un camionista anarchico, queste profondità della mia fidanzata? Come aiutarla? Forse avrei potuto anche senza filosofia senza la sua poesia e metafisica cristiana, scegliere il bene, assecondare, io che mi dicevo forte e temerario per la mia Karoline, avrei potuto facendo esperienza con lei dell’angoscia, superare nel reale il fondo oscuro, spingermi e spingerla con tutte le mie forze per guadagnare la luce, il bene. E invece un gorgo buio me l’ha portata via! Neppure io sono riuscito nei tanti anni passati dalla morte di Karoline a essere strumento orchestrale, per rivelare a me stesso il reale che Dio ci ha affidato sapendo che in esso c’è il Male. Questo reale lo definisce Schubert alla perfezione, nell'Allegro giusto, con l’incalzante ascesa delle ottave con il rullo di timpani che sembra eco del paradiso perduto originario. Per tornarci è necessario accettare la rarefazione del nostro vissuto - fino alla solitudine che vivo da anni? Sì! mi rispondo - verso il tema principale, non altro, la drammatica coda conclusiva della sonata lo ribadisce. Il fondamento di luce e ombra di libertà e necessità per far esperienza del dolore della morte, sta in Dio. Il fondamento di Dio però è l’uomo, un fondamento fragile, che può perdersi in qualsiasi momento, nell’errore nell’incapacità di reggere l’urto di questa dialettica. Cosa ci faceva in un bordello tanto da ammalarsi e poi morirne Schubert! Aveva perso di vista il bene accettato il caos di una sensualità repressa. E io non salvai Karoline Knabberchen perché avevo giustificato l'esistenza della sozzura nel mondo soltanto con declinazioni dialettiche politiche. Invece la questione è come proiettarsi verso Dio nel modo adatto. Karoline aveva questa capacità di farlo ma voleva farlo con me che allora fui inadeguato a fare coppia con lei. E lei scelse di morirne! Se l’amore assoluto per chi ci crede non vive più la coppia, il due che diventa uno, "due piante in un nocciolo" come scrisse, di questo si può morire. E Karoline Knabberchen cercò la morte per acqua. Qui la dialettica, che Schelling aveva individuato, infinito-finito, Dio-uomo, è ancora più esplicita, mi azzardo a scrivere, abbiamo un concitato e spettrale perpetuum mobile che si contrappone al dolce e pacato motivo accompagnato dall’arpeggio del basso. Dialettica dell’ultimo movimento, si sta davanti alla Morte, alla possibile salvezza, le due anime sonore sono opposte e alla fine è quella tragica a vincere il confronto. Karoline e Schubert accettano il tentativo di superare il negativo, nella loro libertà di scelta; il primo di invocare la morte perché il dolore fisico lo soffoca, la seconda perché solo così pensa di uscire dal caos del finito, dove si è sentita sola, con l’uomo amato che non l’ha capita nel momento decisivo! Non so se riuscirò ancora ad ascoltare la Sonata in la min. op 143 dopo quanto ho scritto, dopo il battito folle che la glottide impone al collo scosso dai sussulti del rivelato mistero - è questa la soluzione? o una delle tante possibili? - sul perché Karoline scelse il gorgo alle Lofoten!
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