:: Claudio Di Scalzo: Pesanervi M.R.James. Libr'archeo transmoderno 1

 

 

 

Claudio Di Scalzo

ARCHEOLOGIA EDITORIALE TRANSMODERNA 1

Montague R. James nella collana Pesanervi Bompiani

 

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Il mondo del web  è troppo fragile perché il fantasma del surrealismo ben piantato nello scalzismo - sorta di realismo armato dalla dialettica imparata a Montague - non lo mandi in cento pezzi se in qualche sua plaga passa.

Oggi dalle 16,00 alle 16,30 ho letto il racconto “la camera numero 13” di Montague R. James con una prefazione di Dino Buzzati. L’autore è accolto nella collana “Il Pesanervi” (i capolavori della letteratura fantastica) dell’editore Bompiani. Correva l’anno 1967. Il titolo originale della raccolta, pubblicata nel 1931, è: The collected ghost stories.

 

 

Montague Rhodes James (Goodnestone Parsonage, 1.VIII.1862 – 12 VI 1936) è uno  scrittore, storico e medievista inglese, bibliofilo, autore di racconti vittoriani dell’orrore con fantasmi, firmati come M. R. James. Adatto ad inaugurare la mia Archeologia editoriale Transmoderna, foglio manoscritto-disegnato supplemento dell’Olandese Volante, dove riprendo l’idea di un viaggio nell’editoria per libri esemplari nascosti, che sviluppai sulla rivista Tellus negli anni novanta e poi nel duemila sul sito Tellusfolio da me ideato e diretto (2005-2009).  Chi meglio di Montague R. James pubblicato nella collana Pesanervi della Bompiani negli anni sessanta, con una grafica molto originale in copertina  da me ripresa, meglio citata, poteva avvalersi del numero 1 della serie? Ovviamente, per me, il passato è passato, ma siccome capita che on line poi ti copino le idee, è un mondo di epigoni da sottobosco liquido direi, io sposto in avanti l’ideazione, la prassi creativa marxianamente in corso: e proporrò incursioni nella mia Biblioteca Domestica, abitata da fantasmi letterari ed editoriali, che invece di drappeggiare il bianco lenzuolo indossano il risvolto di una copertina, la grafica di un frontespizio, il giallino Vallecchi e, con loro, gioco negli specchi di una trasmodernità dove l’archeologia un po’ qui (duemila) un po’ là (ottocento e novecento) è come una affettuosa vetusta zia.