:: Giuseppe Revere patriota per Trieste Transmoderna. A cura di Accio per Sara Esserino |
Trieste Transmoderna GIUSEPPE REVERE IRREDENTISTA PER TUTTE LE ERE Giuseppe Revere irredentista per tutte le ere nasce a Trieste, da famiglia ebraica, nel settembre del 1812. Lascia collina e porto perché secondo lui il mazzinianesimo non pulsa nella sua città come vorrebbe, come una specie di bora repubblicana, e porta la sua acconciatura a Milano e poi scarpinerà a Torino; e a Trieste più da vivo non ci torna. Ma la sua figura di patriota estremista sta bene in vista nella letteratura giuliana se ci s’accosta all’irredentista… mai domo. Difatti, da lontano, un po’ in posa da foscoliano, si protende nei suoi scritti verso la patria lontana, anelando la riunificazione di Trieste e dintorni all’Italia. Nel biennio rivoluzionario, quel ’48-’49 - qui succede un quarantotto! qui succede un quarantanove con tante costituzioni nove (ahi la speranza!) – Revere irredentista per tutte le ere partecipa alle 5 giornate di Milano e pure a quelle di Venezia ma lì fu scacciato, e questo lo digerì pochin, da Daniele Manin perché troppo intemperante, illogico nella tattica, fuori binario anzi fuori gondola nel rapportarsi agli altri patrioti. Insomma un esagerato. La Bora mai più annusata gli vorticava dal nervoso da una tempia all’altra. Allora si portò, acconciatura e tutto, un po’ asburgica!, a Roma dove con Goffredo Mameli partecipò alla difesa della città costituzionalizzata dal Mazzini. Pausa d'anni di cui chi scrive non ha traccia. E lo ritrovo a Torino. Al Ministero degli esteri, e poi a Firenze temporanea capitale d’Italia e ancora a Roma. Dove i suoi basettoni bianchi furono incassati col resto nel novembre del 1889. Il poeta esule anche da morto metteva rogna nei pensieri austriaci che non concessero - all’irredentista Revere estremista in tutte le ere – sepoltura nella sua città. Il suo cercato “sasso”. La bora tornerà sullo scheletro del poeta nel 1921. Ma il devoto ad Heine chissà se ne ha avuto ghiaccio ulteriore. Le sue raccolte poetiche non sono indimenticabili. Classicheggianti, sdegnose, anticonformiste e sforzate nel tedium vitae quando non faceva il tacchino mazziniano tricolore in ruota perpetua, esse han titoli come Osiride, Sgoccioli, e Trucioli. Quindi Sbarbaro che neppur sapeva della sua esistenza usa lo stesso titolo. Ripubblichiamo da Osiride “Io vorrei pur saper dall’altra gente”. E risulterà chiaro che questi leoni polemisti, come già il livornese Guerrazzi, quando tenevan penna in mano pensavano ai marmi del Partenone e al massimo al miele del Prati.
IL FASTIDIO DI VIVERE Io vorrei pur saper dall’altra gente Che si commette alle follie del mondo Se in mezzo ai molti gaudi ella non sente Il fastidio del vivere giocondo.
Perocché io, meschinello, nel profondo Dell’animo ho una cura ognor pungente, che mi fatica il cor, turba la mente, anche quando a me stesso i’ mi nascondo.
Più a me non cal di alcuna cosa bella; muto alle gioie della vita, io dico: inver per me non rifiorite, e passo.
Persino in ciel la mia sognata stella Io più non cerco con l’intento antico, e all’ampio mondo chieggo un breve sasso.
Note Commette: affida Passo: abbandono tutto Breve sasso: umile tomba
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