:: Claudio Di Scalzo: Quartetto per il luglio della calda cosa lingua con Karoline Knabberchen e altri maestri - Seconda parte |
Claudio Di Scalzo
QUARTETTO PER IL LUGLIO DELLA CALDA COSA LINGUA con Karoline Knabberchen e altri maestri (Seconda parte)
3 Schubert e le cose melograno dei preraffaelliti Squama rossa notte: s’apre in mano un quintetto d’archi (strimpella ogni dito-movimento, pizzica note come chicchi di melograna che cadono pioggia sulle cose accatastate sparse del divenir fanciullo con cui in amor mi trastullo) –
È Schubert!, grida Proserpina ammantata di riguardo, e spilucca i rubescenti semini: li depone in cova delicata nella bocca di Elisabeth Siddal, come rosse lacrime che il marito abbandoni per lei sulla tela, eterna rinascita.
Vedi, il ‘quintetto per archi in do maggiore’ è giunto a cavallo del rondò finale, piroettando arrota e affila e sfida la beata insofferenza per la menzogna che l’arte in sé trasporta. Non comprendi?
Dici d’aver depositato un uovo tondo sugoso sul mio palmo, pomodoro kamikaze in mano appena uscita dall’onda del Tirreno, per riportar a galla – assieme all’ombra dell’amata da Rossetti che come Ofelia, immersa, posa – anche la memoria di te bambino, in mezzo al campo col contadino, che salava il frutto e te lo porgeva, e ti colorava labbra e mento e gomiti con quel che colava in morso (e non era forse arte, questa?, arte poco museale, proletaria, da dimenticare, da cancellare con la massima precisione, se chi – trovandosela fragile tra le dita – non presti soccorso e cura, e schiacci e pesti, grattando in cesello con le unghie la cera della fantasia irrisa, deposta).
Ma cosa vedi - guarda bene! – se t’insaponi col sugo simbolista, e anziché lavarle, assimili le imperfezioni, connessioni tra segno e segno: ecco accogli una foresta di simboli - gorgheggia la musa Elisabeth da dietro il sipario calato sul mio palmo, rosso su sfondo rosso, come il fondale in cui si calò per il sogno di Millais.
T’aspetto dietro le quinte, mio bene, lì dove la musica finisce e il racconto tace;
t’aspetto dietro la trina arroventata, il cuore in tracollo finché non ti conobbi e mi conoscesti, e assieme soffrimmo di questa scissione.
E Schubert?, domandi. Schubert c’ha raggiunti dentro l’avventura impenetrabile degli accordi iniziali, la foresta emblematica dell’intrico figurativo, e scioglie in gioia esibita con forza questo mistero delle cose, - il “fermare, chiudere” cui la radice della parola allude: radice malata, soffocata nel buio dell’incomprensibilità. Una delle opere più belle che l’umanità abbia visto nascere, questo quintetto, concepito poco prima della morte del musicista, fornisce a noi la chiave estetica per dipanare la morte apparente delle cose, il risveglio primaverile di Proserpina – Kore, la riammissione nel regno delle cose vive, opposta all’oblio delle cose morte.
L’arte, che in te si fa nocciolo e increspatura, necessita dell’esecuzione, della cura che adeguatamente ne permettano lo sviluppo, dall’antico avviluppo della cancellazione: cordone stretto intorno al collo, le cose, di chi ne decretò la fine.
4
Le cose di Monet custodite con Husserl
Invece di opporre luce e ombra, dice Monet, cominciai a ripetere la luce. Più luce. Cominciai col figlio, figliolo dite a Vecchiano, Jean Monet (Jean Monet nella sua culla, 1867): il dondolio, la cuffia, biancheria, tende tutto è chiaro - ah la vostra amata si chiama Chiara! allora è luce per te che trascende il reale d’un nome! - aprivo il cavalletto e dipingevo, bisogna catturare quanto si conosce, continuai con La colazione, ed era il 1868, dalle tendine bianche la luce vivificante la tovaglia, i tovaglioli, i capelli biondi, e chiari son pure i sedili, il tappeto, la cuffia della domestica. Non so se mi spiego. Se la tua Chiara ha occhi chiari, verdi, e lo vedo da me, e capelli scuri, con la luce io potrei rendere tutto il suo profilo come se il nero dei corti capelli non esistesse, cioè esiste ma sta nella luce. La chiarizzerei, eh eh, non so se mi spiego. Bel profilo, anche riprodotto su questo coso che chiami tablet. Fammi veder le ninfeee come appaiono. Insomma credo tu abbia inteso. Annuisco. Monet con la sua teoria della luce mi dà la percezione che le cose mie in scrittura cancellate, perdute, con più luce, rinunciando al nero del rimpianto e della disperazione, con la mia Chiara, posso farle riapparire alla mia coscienza, e riscriverle. Con altra percezione. La contingente cancellazione si è annunciata a me attraverso l’universale gelosia male, con altra intuizione riscriverò ripitturero le cose. Usando luce. Prendo un pomodoro a goccia, nel cavo della mano di Chiara poso del sale, signor Monet conosce la colazione col pomodoro in picchiata? Scuote la testa. Si liscia la barba bianca mentre granelli di sale calano sul palmo di Chiara, ci faccio cadere il pomodoro, lo intingo, lo sbocconcello gustoso. Monet ride. Divertito. Tutto bianco in chiara luce, dice. Poi lì, l’occhio del pittore vede una spellatura sul palmo della signora Catapano, il rosso della pelle sottostante, capisce la simbologia mistica di questa ferita, e aggiunge che se stiamo fermi ci ricava un bozzetto. Stiamo immobili tra orto e giardino di Giverny. Poi Monet Gigione aggiunge che gli piacerebbe saperne di più su quel tale Husserl che mi dà idee sulle cose e le loro essenze. Capisco che il pittore fa l’impressionista stando nel mio pensiero estivo assieme al fondatore della fenomenologia. E il pomodoro è veramente universale come la mano che insalandomi la lingua è come zucchero. Siamo oltre Cartesio, in una nuova dimensione dico all’amata, e lei ride: che fortuna star oltre Cartesio con te, per un attimo ho pensato fossi vanesio nell’epoca del cesio. Mordo labbra pomodoro e le parole son semi e Monet ci dipinge abbracciati. (cds)
Citazioni per la cosa transmoderna detta "Quartetto per il luglio della calda cosa lingua con Karoline Knabebrchen e altri maestri"
“Nessun oggetto viene percepito come unico e isolato dal resto. Veder qualcosa significa assegnargli il suo posto nel tutto: una collocazione nello spazio, una valutazione della sua dimensione, della sua chiarezza, della sua distanza.
(R. Arnheim) Può essere poeta solo colui che possiede una sua religione, una visione originale dell’infinito perché a lui l’ha suggerita chi lo ama con la stessa caparbietà con cui la luce tiene a sé (“in sé” o “per sé” secondo altri traduttori) il buio. Che sia Dio, la Donna o la Natura non ne cambia gli esiti. (Friedrich Schlegel)
|