:: Claudio Di Scalzo: "ELEGIA" di Sergio Corazzini con tomba e quanto illustrato fiorito rimbomba. Anche grazie a Little Tony. 1978. Prima parte.



Tomba quaderno fiorita per confortevole averno - 1978
A Sergio Corazzini.
1978 - cds 




Claudio Di Scalzo
 "ELEGIA" DI SERGIO CORAZZINI CON TOMBA
E QUANTO ILLUSTRATO RIMBOMBA.
ANCHE GRAZIE A LITTLE TONY.
1978 - Prima Parte.





La tomba di Sergio Corazzini nel Cimitero Monumentale del Verano a Roma
(all'interno del Colombario presso il Gruppo 8, Colonna 25, seconda fila).




Quando nel ’78 mi dedicavo a Sergio Corazzini​ (6 febbraio 1886-17 giugno 1907), e per i malati-morti di tisi, sembra abbia collezionato nel tempo segnico: Corbière-Laforgue-Boine, lo feci a scatto disegnato-scritto pel nervoso che mi venne scoprendo che Gianfranco Contini lo aveva escluso dalla sua poi celebrata “Letteratura dell’Italia unita”, perché scarso in salto stilistico; come se esser poeti sia un salto sull’asta dei segni stabiliti dal critico: insomma poeta non all’altezza. A Dino Campana riserverà trattamento da ritardato carducciano. Allora mi venne fantasia di operar critìa alla mi’ latitudine. Anco disegnata.

Dovresti raccogliere quanto hai scritto e disegnato per Corazzini, Claudio. Mi sollecita Sara Cardellino. Al che rispondo che come i fiori di plastica che allora posai sul ritrattino, forse che sia disperso nel Niente, con Sergio, è destino di critìo senza patente.


 


 

Sergio Corazzini

ELEGIA (FRAMMENTO)

1906


Tu piangi, ma non sai, piccola cara,
dove, nell'ombra, piangano le morte
cose quel tuo, dolcezza, ultimo addio,
non sai dove le tue lagrime, dove
le tue povere lagrime salate
piangere, se non anche il più diletto
amante, oggi, le beva per i lunghi
cigli e i capelli ti componga, piano
e tenero, su le arse tempie e voglia,
ad uno ad uno, dalle guance, tutte
bagnate, liberarli, indugiando
nella piccola cura in fin che un lume
dolce ti rida nei piangevoli occhi.

Lagrimi e vuoi che ti racconti alcuna
favola antica, mentre ti sarebbe
dolce un imaginare di lontani
giorni che la tristezza esiliò
con le favole, cara anima, poi
che nessuno te le racconta più,
quelle povere favole soavi
senza amarezze e pure, adesso, tanto
tristi che, quasi, piangi per averle
in cuore, tutte, come le figure
di quei piccoli santi con la palma
che tu appuntavi, con gli spilli, al muro.

Piangi pur anche la malinconia
mortale d'una piccola bottega
nera, di vecchi mobili, di vecchi
abiti, in una triste via, nell'ora
crepuscolare, e tutte quelle cose
imagini che siano per morire
in uno specchio, simili a dei fiori
obliati in un vaso? Ma non devi
piangere. Lascia ch'io ti asciughi, povera
anima, piano, quasi il fazzoletto,
raccogliendo le tue lagrime, possa
domani, ancora, s'io lo voglia, tutte
alla mia bocca renderle, dolcezza.
Sorriderai: se dolorosamente
sorriderai, mi basterà. Che importa
se non t'è il cielo, all'improvviso, tutto
nel cuore? Avrà tempo. Non è già questo
l'ultimo pianto! Io sarò dolce e tu
sarai fragile e tenera e serena.

Verrà la pace con le mani giunte,
ma non la udrai tu, piccola, venire.
Tornerà, sai, quotidianamente
un poco, senza dirti nulla; e, vedi,
sarà come se tu cantassi una
preghiera incomprensibile, per lungo
volger di tempo, in fin che in una sera,
forse più dolce e triste, all'improvviso
t'avvenisse, così, senza sapere,
di comprenderla intera. Cento volte
passeremo per quella via che più
diletta a non so che malinconie
nostre avremo. Lungo i chiari fiumi
canteremo le più vecchie canzoni
e sarà dolce non seguirne il senso.

e canteremo solo perché possano
inavvertite piangervi le nostre
anime, un poco. Tu vedrai; la bella
Vita imagineremo in una chiara
morte. Come se tu fossi, ogni giorno,
per giungere ad un mio primo convegno,
ti vorrò bene, e come tu, dolcezza,
giungere mai dovessi, io ti vorrò
tanto bene. Sorridi, ora. Non piangi
quasi più. Ce ne andremo in una casa
piccola e sola. Se vorrai, nei giorni
di festa, porteremo a tutti i piccoli
infermi alcuni di quei dolci, quei
poveri dolci delle suore, quasi
bianchi, senza sapore, avvolti in carte
celesti e in fili d'oro. Se vorrai,
questo; se non vorrai, se ti sembrasse
troppo triste, andrò solo, senza piangere,
anima cara, e tornerò alla nostra
piccola casa e, come fossi anch'io
malato, sognerò le tue parole
tenere, bianche, senza senso quasi,
come quei dolci, quei piccoli dolci
delle povere suore malinconiche.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

 

 

Senza data la plaquette ELEGIA di Sergio Corazzini, tante fitte, viene pubblicata, 1906, nell’intervallo tra PICCOLO LIBRO INUTILE e LIBRO PER LA SERA DELLA DOMENICA.

Tasto questo callo callosità “giaele” dura ; nun saprò ‘ome andrà: so-sob che sarà pura. Cumme ogni malata dis-lettura decotta-decostruita. Tanto gliè perduta onni vita di chi scrisse scrive sempre porti a casa pive ner sacco: u’ saccio.

Nell’incrocio-croce della poesia nell’intersecarsi, ahì ohi punge ancor nun defunge, convergente tra misura prosodica e temino interiore-interiora, si palpi, cumme fa o’ duttore, l’articolazione strofica di Elegia (Frammento) e ditti-mì dio-lo fo di necessità, ch’esta l’è emblematica e funzionale (per chi? Pemmmé ovvio) svoltatura ner motivo della malinconia, nervi danzanti, crepuscolare: ‘Orazzini lo ‘ompie rallentando (sì ma fino a quando?) il discorso poetico enfatizzando (sì, ma per quanto!) il frequente uso della virgola (martelletto sul dente della voce-lingua-esangue?).

La cingomma dell’iterazione assidua ovvero chewing gum tumb tumb tomba se giòo ‘ommosso alla Palazzeschi fiori fiorentini freschi (oggi ner maggio der 7 anno 2025 posso aggiunge alla gomma lo slash, o splash issà salivale, in barra-bara finale con o senza url-urlo) vien marcata-stretta da gruppi-groppi semantici.

E della connotazione der ‘ampo onomasiologico relativo al pianto, che ne fémo, al centro della dislettura o in un canto?

Mi sembra, cun la mi poa tempra di crit’io cretienne che basculli una tonalità emotiva, sì sì critìo lo scriva, dice l’ombra der morto giovincello CorazziMI strazi, ectoplasma nella seduta spiritìa della mì critìa, che s’impegna si segna me lo segno: nella tonalità emotiva composta di rassegnazione regressiva gravitante, ò duve va? Duve s’appiccìa, verso il tema espricitato a su tempo con altro nerbo-nervo-stile-stille piangiolenti ma contadinesche, dal Pascoli: COMPIANTO per l’infanzia ignara, metà sogno cui agogno, pur’io che scrivo ner 1980, sotto la panca critica letteraria che arranca metà florilegio, ad affidarcisi rende mogio, sulle illusioni: della vita: cumme na’ vite s’avvita nel legno bagnato di lacrime o stagionato.

Esca perdìò, critìo opaco nell’io balbuzie Joyciano e s’affidi al Jammes, che conduce Corazzini palpebre fini presto cucite dalla morte all’equivalenza, ci pensa critìò vecchianese? Le fa da lenza invece che sul Tevere sul Serchio?, semantica di TRISTE e DOLCE. Aggettivi della covata jammesiana.

Nella seonda strofa ecco che cova il tratto d’unione storta fecondazione del passato/presente. Allora “giorni che la tristezza esiliò con le favole” nel presente la malincònia-conio tri-tri-tristezza spille sul petto di pezza (tisi per smunti visi, neh) apre all’elenco oggetti ex lucentezza della terza strofa.

Nella bottega annerita vecchi mobili-abiti che al rintocco dell’ora crepuscolare van a morì nello speco senza spreco similmente ai fiori recisi nel vaso simbolo del viver d’ogni esistenza tarlata nel caso-kaos.

Finito l’elenco dal sorriso frammento pencolo. Io povero Sergio e profferisco sottovoce: sorriderai. Tu giovane danese con la guarigione (riuscirà) alle prese.

 


"Tania a Nocera Umbra 
guarda (interrogativa) Sergio Corazzini"
Foto cds - 1978




Litthe Tony con il critico letterario canta Riderà
cds 


 

E se mi sporgo nel futuro e ascolto la canzonetta di Little Tony “Riderà” ghigno che tu-TANIA, giovane danese conosciuta in questo sanatorio di Nocera umbra, che tuba-turba, io ti lascio alla sua materiale, oggi, inconsistenza, perché essa è la Morte che hai scansato guarendo: sorriderai, riderai, e la ballerina scheletrina verrà invece da me. Inamidata trina.

Eilà, ecco il filmino postmoderno per il poeta bambino. Ci mancava Little Tony canterino. A scriverne che sciocchino che son qui inframmentato critìo con l’infradito sur piede scalzo-scarso.

sarà come se tu cantassi una
preghiera incomprensibile, per lungo
volger di tempo, in fin che in una sera,
forse più dolce e triste, all'improvviso
t'avvenisse, così, senza sapere,
di comprenderla intera.







 

(Corazzini a Nocera Umbra cerca clima per reggere salute tarlata dalla tisi Nocera Umbra ma sa che più in là non andrà: scrive all’amico Guido Sbordoni: “Io sono così debole, così fanciullo, e tremo d’angoscia, ora tremo perché il male progredisce sempre, sempre e domani non potrò uscire…”.
Nella cittadina conosce una beltà danese, Tania. Si innamora. Lei guarirà. Se ne andrà. Del core poetico tosente poco saprà. Intreccio platonico; ma Corazzini lumeggia quei capelli biondi e le mani bianche sottili. Ne scrive nel 1906 all’amico Alfredo Tusti: “In quell’istante in cui posso fissarla profondamente, intensamente, trafiggendole gli occhi con le lance dei miei sguardi, io mi sento così buono, così tenero, così dolce, che la mia vita fugge lenta e soave, e s’inazzurra e s’inciela”. A se stesso dice che lei guarirà e ancora riderà nei suoi giovanili anni. Quel "riderà" giustifica la presenza di Little Tony. Il postmoderno alle soglie per lui dell'Averno!)


 

 


 

Al verso cinquantadue, s’io che interpreto da prete scomunicato del crepuscolarismo, ‘ome fossi un bue, rampolla la facile coppia, s’accoppiano, di TRISTE ET DOLCE, e s’accoppia pur il suggello passato e futuro, nella impura dolcezza del presente scardinato da passato scontornato e futuro mancato.

Dolcezze, mancate carezze, se ci son state sflautate anco perché idealizzate che dilatate son ramo o se ancor t’amo morente in esta coscienza regressiva che di tutto mi priva e te pur der mi’ riordo se resterai viva.

Le apparenze, pericolose testuali lenze, stan nel presente contraddetto da forme verbali coniugate al futuro che non ci sarà: sostanze verbali terminali da sinuosità Art Nouveau che invocano si storcono si bisciano nell’attesa. Per me Sergio è una resa.

Epperò in ELEGIA se po’ far la spesa stilistica. Astuta e mogia.

Coerenza elegiaca gomma estesa ininterrotta (gelo che scotta?) nel tempo languore mortale còre premuto pedale!

Insistenza del pianto sur petto che ponza ponza ponza.

Prevalenza, ehì che insistenza Sergio!, di parole-immagini slavate nella dimensione empirica-sensoriale.

Nix concretezza.

Monocorde ricorso al linguaggio fonosimbolico capei unti sudore tisi asciutti col phon elegiaco.

Immagine-evocazione nel lentamente scartando dissonanze discordanti, oh se io e te Tania nel pensier fummo amanti oh che danze avrem vissuto che perdizione labbra d’amanti nei canti!, invece tutto è bianco.

Opaco insonorizzato silenzio colore dell’inclemente terrestre tempo. MIO.

Cento volte / passeremo per quella via che più / diletta a non so che malinconie / nostre avremo. Lungo i chiari fiumi / canteremo le più vecchie canzoni / e sarà dolce non seguirne il senso /

Butto lì l’endecasillabo pascoliano, non sarà vano, ello preso dai Poemi Conviviali, perfetto lavabo.

Enjabement prolunga allunga mi campa sospende. Punge o unge?

Noteranno?, lo noterete? Lo noterai? Tania lo sopporterai? Critico episodico al sodio-sodo lo avvertirai esta GRAFICA dell’ELEGIA?

Stampata in versi tantissimo-nel-finissimo esageratamente, tienilo a mente, spaziati: per coltivar risonanza nella pure narrativa sostanza!

Spropositata invasione per tenzone tra il bianco marginale in alto e basso giocanti distanze minime rispetto ai vuoti vuoto salenti tra un verso e l’altro: ottengo la fissità del tempo mio quasi mortale e di chi legge la salute al riparo. Son buono fanciullo che dissolve le rigorose forme tradizionali dal di dentro: nella non confortevole tosse-agonia.

Il bianco scavato lo vogghio enfaticamente in surplus di pausa-causa! Vaneggio? Si sì sì vaneggio.

ELEGIA venne pubbriata a sé. Eccentr’IO rispetto al resto? Si e no.

Circolazione venosa polmonare crepuscolare. Sì

Contenuti soliti ripetuti fissati da bimbo poo sviluppato ner fisìo non nel linguaggio della morte paggio. Sì

Tutto solito ordunque? NO. Il “Tu” usato scansa il facile relazionamento divenendo colloquio con l’anima tarlata tossente del poeta e fanciullante dialogo con TANIA forse me-malato-mi-ama. Ir TU gettato ponticello tra occhi aperti e occhi chiusi sogno travicello.

Reclusione forzata privazione sopportata sospensione temporale valida casuale malattia terminale.

E lo spazio? A chi paga dazio?

Ovvio, alla fenomenologia limbica, quasi conventuale che al tempo mozza l’ale.

A questo punto Corazzini e Tania e Critico sopra il rappo di fico, poo solido, prendon congedo. Riecheggia Little Tony con Riderà... tu falla ridere perché... che rompe il silenzio poetico.

Tutti noi andiam nella semantica della sparizione scema (ogni morte e vita lo è. Sema di zucca seme senza speme, direbbe Margherita Stein ateissima fichissima.) codificando il vuoto, a capirli ci vuol poco!)