Nelle chiuse palpebre d’Ilaria trema
l’infetta membrana delle notti
italiane… molle di brezza,serena
di luci… grida di giovanotti
caldi, ironici e sanguinari… odori
di stracci caldi, ora bagnati… motti
di vecchie voci meridionali… cori
emiliani leggeri tra borghi e maceri…
Dalla provincia viziosa ai cuori
bianchi dei globi dei bar salaci
delle periferie cittadine,
la carne e la miseria hanno placidi
ariosi suoni. Ma nelle veline
e massicce palpebre d’Ilaria, nulla
che non sia sonno. Forme mattutine
che, precoce, la morte alla fanciulla
legò al marmo. All’Italia non resta
che la sua morte marmorea, la brulla
sua gioventù interrotta…
Sotto le sue palpebre, nel suo
sonno, incarnata, la terra alla luna
ha un vergine orgasmo nell’argenteo buio
che sulla frana dell’Appennino sfuma
scosceso verso coste dove imperla
il Tirreno o l’Adriatico la spuma.
Dentro il rotondo recinto di pelli
e di metallo, isolato tra le fratte
in cerchio in una radura d’erba
verdissima sui dossi del Soratte,
dorme un umido, annerito gregge,
e il pastore con le membra contratte
nel calcare.
(Pier Paolo Pasolini, “Appennino”; a cura di Elisabetta Brizio) |