Goya: Cristo nell’orto degli ulivi
Claudio Di Scalzo
GOYA CON CRISTO NELL'ORTO DEGLI ULIVI
Sembra che quando il servitore passò con l’acqua davanti al Cristo nell’orto degli ulivi, ed era il 1819, vedendo il Redentore tanto macilento e a un dipresso il suo padrone pittore, al poveruomo sfuggisse dalle mani la caraffa che cadendo si ruppe in tanti vetri aguzzi. “Cristo è anche il Signore dei vetri che tagliano”, esclamò Goya per consolarlo. “Lasciali sul pavimento”, ordinò, “se li calpesto è segno che cercavo la penitenza adatta per quanto ho dipinto”. Il suo bisogno di assoluto poi smarrito lo spinge al parossismo dove ogni devastazione nel corpo è giustificata vivendola in pittura. La Escuelas pias de san Anton Abad che ha commissionato il dipinto lo accetta con riverenza, è un maestro inquieto, rappresenta anche la vecchiezza del mondo che il Cristo rigenererà, si dice comprensivo il religioso responsabile della Confraternita.
In questo dipinto la confessione di Goya racconta il sacro dal basso come l’acqua morta nel pozzo cattura il baluginìo del cielo stellato. La natura divina del Cristo sembra smorzata. Cristo è il più miserando degli uomini sotto la morsa della sofferenza fisica, preda della penombra che offre agonia morale. Cristo è orfano come individuo in una plaga di mondo che gli ha assorbito ogni energia rifiutandolo. Non trova conforto in se stesso, la presenza dell’angelo è distante pallore silente, la tirannia della veste sporca di fango verso il fango lo piega. Goya non dipinge un volto agitato come potevano averlo gli eretici verso il rogo, né quello fiero nel panico del brigante che accetta il cappio!, Cristo è la miseria umana che si stacca da ogni altra miseria, le riassume tutte, le assorbe quasi, e Goya mostra con eccesso di rapidi colpi di pennello quanto si accascia per sondare già l’ombra della morte.
Nel contempo l’Orto degli ulivi è un Autoritratto. Morale per i piedi scalzi tenuti vicino ai vetri, di confessione estrema su se stesso come se la croce da lui portata, disegnando, lo rendesse in prossimità di uscire dalla vita essendo il meno vivo tra gli uomini; anche ammissione di impotenza il dipinto, dell’uomo che non può, in sofferenza estrema, che dire: si muore ma col vestito migliore, tutta la mia eccelsa pittura per raffigurare l’uomo Dio, e firmo la cornice della tela con la resa del mio corpo, non resisto più, la vita per me Goya è stata troppo disumana. Quale mistico afflato avrei dovuto posare sul volto di Cristo, rispettabile padre della rispettabilissima Escuela Pias de San Anton, Cristo non scorge nel cielo di bitume nessun alone speranzoso, e le sue membra sono sconvolte dalla fatica, rese terrene oltremisura dalla tristezza, ha mai provato, rispettabile padre, cosa voglia dire lo scarto che si crea fra quanto cercato di assoluto e la polvere che poi ti circonda fino a raggiungerti il mento per soffocarti? Ha mai annaspato in questo disfacimento ripugnante che rivela il reale dell’esistere sulla terra? Perché il Cristo uomo non avrebbe dovuto provarlo in una intensità, che io Goya! pur essendomici nutrito, mai potrei neppure immaginare!
Nell’orto degli Ulivi, che fisso in questo luglio, c’è la materia straziata e flagellata e sanguinante, ogni aspetto umano è cancellato dalla porosità della disperazione! La sofferenza senza limite, la miseria senza limite del dubbio, l’incommensurabile capacità di essere infelice riguarda il Cristo e me pittore del Cristo e tu che guardi il dipinto e ci scrivi accanto perché sai come lo smacco sia la sorgente - inesauribile - dove realismo e spiritualità diventa debole come lume quando infuria la burrasca. Ma questa è anche tutta la potente religiosità di me pittore che fai tua. E il Cristo nella sua debolezza senza misura troverà l’amore senza misura da donare. Questo sperai calpestando a bella posta i vetri aguzzi un tempo caraffa, questo spera anche tu mentre t’incidi con quanto un tempo intero adesso taglia il tuo presente senza remissione.