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Dalle Alpi allo Ionio

:: Piero Bargellini e Dino Campana. A cura CDS
03 Aprile 2013

  

 CDS: "Fiato che mi sgrana" - Serie di disegni per Dino campana

 

 
LA TOMBA DI DINO CAMPANA
 
Quand’ho letto nel libro del medico Pariani, che il corpo di Dino Campana è sepolto al cimitero di San Colombano, sono sceso in direzione dell’Arno, dove s’allarga, verso Signa, la pianura argillosa.
L’Arno faceva pantano di questa piana, prima che i cistercensi bonificassero attorno. Furono essi, i monaci, a rasciugar la palude, costruendo argini e scavando canali. Appoderarono la palude, e lungo i canali costruirono mulini; lungo le strade, opifici.
La Badia, cinta di mura e difesa da torri, era convento, fortezza, fattoria da cui uscivano monaci architetti, ingegneri, idraulici, agricoltori. La plaga intorno, dove una volta il sole fendeva il motriglio portato dall’Arno in piena, diventò fertile e ricca.
La Repubblica fiorentina sceglieva tra quei monaci i suoi consiglieri più sicuri, e dava a loro in custodia il suo sigillo. Affidò in mano loro anche il pubblico erario, e il denaro dei fiorentini passava dalle bianche mani consacrate, come l’acqua dell’Arno era regolata dalle loro opere di idraulica. Né si patì, in quei tempi, mai di strettezze finanziarie. Né secche o alluvioni guastarono il piano.
Passando sotto le mura di quel convento mezzo interrato, dove le botti di una fattoria sono allineate tra colonne romantiche, vien fatto di ripensare a questa storia lontana anche a chi sia in altri pensieri; anche a chi sia in cerca di una tomba di poeta.
Volgo lo sguardo dal campanile della Badia, ai pinnacoli di Castel Pulci. La bara di Dino Campana scese, cinque anni fa, dalla villa dei pazzi, verso la pace della Badia. Il cimitero di San Colombano deve essere in questo tratto, su questo verde piano.
Ma non è facile orientarsi tra le strade, che vanno in tutte le direzioni, accompagnate dai due fossatelli piena di ciuffi d’erba. Prati gialli di ranuncoli abbagliano a tratti, fra il verde marcio. Da poco ha piovuto, ma il vento risecca l’aria, passando basso e asciugando le erbe piegate.
Chiedo più volte ai contadini dove si trovi il cimitero, e improvvisamente scorgo tra le viti le sue quattro mura bianchissime.
È un camposanto lindo, con giovani acuminati cipressi; il grano si appoggia all’intonaco esterno; i filari delle viti rasentano i muri, e i tralci piegati sporgono dentro il camposanto, lacrimando gli umori primaverili.
Poiché il cancello, foderato di lamiera, è chiuso e legato con una catena a lucchetto, misuro con impazienza l’altezza dei muri. Son bassi, pure non mi saprei risolvere a scavalcarli.
Mi guardo attorno e vedo avvicinarsi una donna vestita di nero. Ell’ha sotto il braccio una granata consunta e stringe contro il manico un mazzo di fiori. Tra i pollici e i gambi dei fiori preme anche una scatola di fiammiferi di legno. Dalla tasca del grembiale esce un lembo della carta turchina nella quale sono di solito involtati i lumi di cera.
-  Siete la custode? – le chiedo sicuro di quel che domando.
Mi risponde di no; aspetta anch’ella il becchino che deve giungere, in bicicletta, dalla Badia.
È lunedì; son già le cinque. A quest’ora, in questo giorno della settimana il camposanto viene aperto al pubblico. Non gli altri giorni della settimana; non le altre ore del giorno. Mi meraviglio d’essere stato, senza volerlo, così puntuale.
Ma intanto la donna è curiosa di sapere chi cerchi nel camposanto:
-   Avete un parente qui? – mi chiede tentando di entrare in confidenza.
-    Un amico, - rispondo, e mi sorprendo di quella risposta e me ne pento come se mi dovessero sentire di là dal muro e smentire. Chi mi ha suggerito questa risposta? Amore, presunzione o timore di apparire alla donna un ozioso e curioso estraneo? Mi posso chiamare amico di Dino Campana? In vita gli avrei voluto bene, avrei apprezzato la sua poesia, avrei compatito la sua stranezza? Forse no. E ora che il povero poeta pazzo giace con la terra fin sugli occhi, smemorato e pacifico, mi son chiamato amico, qui a due passi da lui; mi son vantato di lui con una povera donna che non sa nulla, ma che mi dà soggezione.
Poiché la donna mi fissa e vorrebbe chiedere ancora, mi distraggo a guardar la campagna; un campo di piselli gracili, un appezzamento di grano basso, spighito quasi a fior di terra; una vite che ha aperto sui nodi le foglioline pieghettate come tanti ventagli di seta. E dove io guardo, la donna guarda e interviene.
Passa sul grano, lungo una viottola nascosta, un uomo in bicicletta. Muovo un passo verso il cancello, ma la donna mi avverte:
-  Non è lui.
Due bambine vestite di tenui colori vengono a fermarsi dinanzi al cancello, ad aspettare. Giunge una vecchia con le mani sotto il grembiale; un uomo con un marrello; una ragazza in bicicletta; altre due donne…
Non parlano che a bassa voce, ma attorno attorno si sentono, per vie invisibili, nascoste dal verde, passare biciclette tintinnanti, barroccini sonori, voci e rumori, risate e canti. E le foglie tremano sugli alberi, contro la luce, e il grano si dondola svelto e i giovani cipressi s’inchinano tutti dalla stessa parte. Ed è una gioia, un sollievo attendere a questo cancello, e ripeter con Dino:
 
Ma per i cuori leggeri un’altra vita è alle porte:
Non c’è di dolcezza che possa uguagliare la Morte.
 
 
PIERO BARGELLINI
 
Frontespizio, maggio 1938, XVI, Vallacchi editore, Firenze. Prima parte
 
(a cura di CC)


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