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Viaggi e altri viaggi

:: Schumann in Italia, 2 - A cura CDS/Margherita Stein
23 Febbraio 2013

 
 
 
 CDS: Schumann rossomatto da giovane
 
 

 

 

SUL CORPO IN VIAGGIO DEL MUSICISTA SCISSO

1829: anno in cui Schumann, nato nel 1810, non ancora ventenne, pieno di disponibilità verso la vita, intraprende il viaggio in Italia.

Anche in questo caso il viaggio è una metafora: se in esso c’è tutta la voglia di nuove cose, vi è anche celato il bisogno di un allontanamento da una situazione confusa. Chi ha già conosciuto Schumann, sa quanto fosse importante per lui in questi anni distaccarsi da certi condizionamenti; disponibilità dunque, ma anche bisogno di comprendersi, di guardarsi in una situazione nuova, straniera, di sco­prire la propria vocazione, assimilare tutto ciò che lo sguardo offre.

Ma gli appunti di viaggio sono a volte telegrafici, non lasciando trasparire nessuna emozione, a volte incidono su di noi più di qualsiasi loquacità; in certi momenti sembra di entrare nell’intimità di chi scrive, in altri, si è respinti dalla fredda superficie delle annotazioni. Chi volesse spiare fra le pagine del diario, per individuare alcuni momenti cruciali, rimarrebbe deluso: nessun cenno ai suoi dubbi, al suo travaglio rispetto ad una scelta di vita. Eppure da una lettera: “Tutta la mia vita è stata una lotta di venti anni fra la poesia e la prosa; chiamale, se vuoi, la musica e il diritto... Sono ora al bivio, e tremo davanti a questa frase: dove devo andare? Se seguo il mio genio, esso mi dice l’arte, ed è, credo, la strada giusta...”. (lettera alla madre, 1830).

Dall’incanto di un bambino di nove anni, stupefatto durante il concerto di Mocheles, all’incanto di un “bambino” di vent’anni, rapito dall’esibizione di Paganini a Francoforte, nella Pasqua del 1830. Giovani composizioni musicali e custoditi progetti letterari; ma il fantasma del giovane e sfortunato Joseph Berglinger incombe, non è più possibile concedere altro tempo all’incertezza.

La decisione era presa, ma doveva passare ancora del tempo prima che potesse dedicarsi finalmente alla musica senza sentirsi dolorosamente colpevole nei confronti di una madre che lo costringeva amo­revolmente sulla strada del diritto. Sarà proprio il bravo Maestro Wieck a prendere le sue parti, a difenderne le doti musicali, lo stesso individuo che per uno strano destino ostacolerà in seguito, con cattiveria, insulti, diffamazione e sputi, l’amore del compositore per la figlia Clara Wieck e che sarà fonte di acuto dolore, di stati depressivi e di crisi d’ansia per il musicista.

Delirio gli procurava la lettura di Jean Paul Richter e «quando suono Schubert è come se leggessi un romanzo di Jean Paul», scriveva.

Il suo amore per la scrittura durò tutta la vita e pagine di diario si susseguono fino agli anni più tormentati.

Nelle poche pagine qui pubblicate non si può non prestare attenzione, quasi morbosa, ai suoi stati fisici: diarrea, vomito, vertigini: quasi a voler cogliere un indizio di quei malesseri psico-fisici che deterioreranno la sua salute fino a condurlo alla morte precoce. Ed anche se questa è una interpreta­zione distorta di quelle che furono probabilmente semplici e comuni indisposizioni, insiste il deside­rio di rendersi accessibile e chiara nelle sue cause e sviluppi ciò che per sua natura non lo è: la follia. Ma non è attraverso la sua musica che è possibile riconoscere la follia, o meglio, «la musica di Schu­mann e sempre saggia, nella misura in cui si sottomette docilmente al codice della tonalità e alla regolarità formale dei melismi. La follia è qui in germe molto presto, nella visione, nell’economia del mondo col quale il soggetto Schumann intrattiene un rapporto che lo distrugge a poco a poco, mentre la musica cerca di costruirsi».

Questo è quanto scrive Roland Barthes in Amare Schumann.

E sottolinea ancora come manchi in Schumann, anzi nella musica di Schumann, il dualismo conflit­tuale, la lotta, (Beethoven, Cajkovskij) e come, di conseguenza, venga meno la sintesi, che viene sempre rimandata, delegata, rinviata, non da un “tempo” all’altro ma da un “pezzo” all’altro, inces­santemente, in un continuum musicale senza fine, in uno slittamento di accenti sempre nuovi. t la terra di mezzo, dell’ “intermezzo” appunto, e dei vorticosi giri dei Papillons e dei Carnavals, con il tema del nascondimento e dello svelamento, del doppelganger, del doppio che riappare nei Lieder. Questo “attaccare continuamente nel vuoto”, questo venir meno, se da una parte fa levitare la musi­ca ad un grado di “inaudita purezza”, dall’altro crea uno scarto, una sospensione nella vita e nella mente del musicista.

Come non pensare a “quel pazzo”, poi, che per dieci anni tenne in vita una rivista musicale, La “Neue Zeitschrift fur Musik”, da lui stesso sognata, realizzata e diretta, negli ultimi anni quasi da solo, con un entusiasmo costante e con una generosità disinteressata nei confronti degli “astri nascenti” (Men­delssohn, Chopin, Brahms), con acute analisi e sottile umorismo? Anche qui un gioco di sdoppia­menti nelle figure di Eusebius (ricco di slanci e poeticità), Florestan (riflessivo e acato), e il Maestro Raro (la giusta misura fra i due). Pseudonimi con cui firma i suoi articoli.

Infine il silenzio: è costretto a tacere perché abitato da una folla di voci interiori; dapprima in forma logica, chiara, poi, sempre più fitte, intrecciate, convulse: rumori e stridii insopportabili.

Andrà interrogando “le tavole parlanti”, per sapere da Beethoven come si dovesse eseguire la sua musica; e forse altre cose ancora: «Io so...» furono le sue ultime parole all’adorata moglie Clara.

 

(Traduzione di Margherita Stein)

 

 

 

 


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