CDS - Autoritratto - Guardando verso la Cisa - 14 febbraio 2017
Claudio Di Scalzo
I DI SCALZO SEPOLTI SULLA CISA
(Feuilleton cristiano-comunista)
Quando da piccolo mio padre, camionista, mi portava con sé, ed ero un ragazzino di dieci anni, nei suoi viaggi verso Milano con gli spinaci, ancora non c’era l’austostrada che valicava la Cisa. Bisognava salire i tornanti. E col ghiaccio e la neve era pericoloso. Mi sembrava di stare, e lo era, in un romanzo di Jack London o Zane Grey. E mio padre era un trapper che invece del cavallo aveva un camion. L'OM 42 Fiat.
-Nella chiesetta in cima alla Cisa ci sono dei Di Scalzo, forse parenti alla lontana, lì sepolti.
-Ci fermiamo a salutare le loro tombe?
-calma piccolo Accio. Io in tutti questi anni che valico la Cisa mi ci sarò fermato solo un paio di volte.
-E perché babbo?
-Perché si va lì soltanto quando noi Di Scalzo siamo in pericolo, quando abbiamo bisogno di trovare nuove forze, altrimenti la catastrofe ci travolgerà. Viviamo questi momenti adesso?
-No babbo. E allora proseguiamo. Ma ricordati di questo luogo quando ne avrai bisogno. E quando vi entrerai non importa tu sia tanto a spiegare. I morti se ti sono amici, e loro lo saranno!, sanno perché stai lì. Non fare chiacchiere inutili o preghiere come si fa coi santi. Scegli una tomba. Un nome che ti sembrerà più amico che suona bene. Ci posi la mano e dici la prima parola che ti passa per la testa. Può essere “sono il figlio di un camionista”, oppure anche “com’è fina l’aria sui castagni”. Loro se li convinci, per come sei, ti aiuteranno.
Ancora non so se Lalo, grande narratore orale, mi stava raccontando una leggenda inventata lì per lì, per stare in compagnia, o se era tutto vero. Propendo a che fosse tutto vero. Aveva questo rapporto da eroe mitico, con la morte e i morti, che è anche il suo mistero. E a cui dedicherò i miei ultimi anni. Per raccontarlo. Come quando mi disse che noi Di Scalzo, i più forti, però, della stirpe, potevano andarsene dal mondo, dalla vita, se erano stanchi di viverla, se una tristezza insanabile li teneva, se non volevano invecchiare, magari in qualche malattia; questi Di Scalzo, e io questo dono ce l’ho caro figliolo, potevano in un giorno qualsiasi dirsi: Oggi è un bel giorno per morire. E addormentarsi e non svegliarsi più.
Così lo trovai il 12 giugno 1995. Sotto l’ulivo al Campo della barra, a Vecchiano. Che sembrava dormisse, sul proprio basco posto sotto la testa.
E l’ho raccontato nel libro Vecchiano un paese, lettere ad Antonio Tabucchi. Pubblicato da Feltrinelli venti anni fa. E accettai di stamparlo perché potevo parlare di Libertario detto lalo. E della sua morte. Tabucchi poi gli dedicherà Campane del mio villaggio e Davide Benati dalla sua morte ricaverà un grande dipinto.
Crescendo ho scoperto che la frase “Oggi è un bel giorno per morire”, la dicevano gli indiani Sioux quando si opponevano alla logica dei bianchi. Non avevano paura di morire. Ma doveva essere un giorno adatto. E scelto dal soggetto libero.
Mi commuovo, scrivendone, non me ne vergogno ad ammetterlo.
Andando su e giù sulla Cisa per raggiungere la Nada, ieri sono passato dalla Chiesa. E mi sono fermato. E’ la seconda volta che lo faccio, la prima accadde nel 1984. Quando una poetessa svizzera si suicidò alle Lofoten. In questa seconda volta ho cercato aiuto per mia madre e per me. E ancora ho proceduto come consigliato da mio padre. Ho posto la mano su di una lapide che ho sentito la più amica. E ho pronunciato una frase a caso, la prima che è emersa alla coscienza del linguaggio. Che ora ho dimenticato. Ho guardato poi il Crocifisso. E sentendomi un po’ Ladrone spero che anche lui mi protegga. Ci protegga. Poi sono ripartito.
Giunto a San Cassiano Valchiavenna, stamani, sul terrazzo, guardando verso la Cisa, mi sono scattato una fotografia. L’avrei pensata sacrilega farla alla chiesa. Ma qui, da qui, ho pensato che potessi ringraziare chi ha accettato di proteggermi.