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Margherita Stein

:: Byron: Il prigioniero di Chillon. Traduzione Margherita Stein
21 Novembre 2013

 

 

 

 

George Gordon Byron

IL PRIGIONIERO DI CHILLON

 

 I

Ho i capelli cenerini, ma non per gli anni, né m’imbiancarono in una sola notte, come ad altri avvenne per improvvisi ter­rori; piegate sono le mie membra, ma non per la fatica, bensì fiaccate da imposto riposo, perché furono preda di una cella; e il mio destino fu quello di coloro ai quali la incantevole terra e l’aria – come frutti proibiti - sono negate e proibite. Ma per la fede di mio padre soffrii le catene e corteggiai la morte: e quel padre perì sul rogo per i principi religiosi che non volle abbandonare. E per questo i discendenti della sua stirpe trova­rono casa nelle tenebre della prigione; sette eravamo - ed ora uno solo rimane; sei perirono giovani, uno rimase vivo invecchiando, essi finirono come già si erano presentati: orgogliosi dell’irata persecuzione subita. Tra le fiamme uno, due sul campo, con il sangue sancirono la loro fede, mo­rendo come il loro padre era morto, per quel Dio che i loro nemici negavano; - tre furono gettati in profonda prigione, e di essi ultimo resta questo misero avanzo che io sono.

 

II

Sette pilastri di gotica strut­tura compaiono nelle profonde e antiche segrete di Chillon, vi sono sette colonne massicciamente grigie, che fosche traspaiono in una tetra imprigionata luce, sperduto raggio di sole, caduto attraverso lo spiraglio e la fessura della spessa muraglia, e abbandonato, stri­sciante sull’umido suolo, quale fatuo fuoco di Maremma. Ed in ogni pilastro c’è un anello e in ogni anello una catena; quel metallo è cosa che ferisce, perché in queste mem­bra il suo morso impone segni che mai spariranno, finché io non abbandonerò que­sto nuovo giorno, doloroso ora per que­sti occhi che non hanno visto così sorgere il sole per lunghi anni - non posso contarne il numero, perché ne persi la lunga e dolorosa sfilza quando il mio ultimo fra­tello si piegò morendo e giacqui vivente al suo fianco.

 

III

Ci incatenarono ognuno a una pietra di colonna, ed eravamo in tre, eppure cia­scuno solo; neppure un passo potevamo compiere; né potevamo vederci il viso l’uno con l’altro, in quel pallido chiarore che ci rendeva stranieri ai nostri oc­chi: così uniti, eppure divisi, con le mani bloccate nei ceppi ma con i cuori congiunti: era ancora un conforto, in mancanza dei puri elementi della terra, l’ascoltarci par­lare, diventare ciascuno a turno il confortatore dell’altro con qualche nuova speranza o antica leggenda o eroico canto fiero. Ma alfine anche questi conforti divennero freddi. Le nostre voci assunsero un fosco timbro, un’eco delle pietre del car­cere, un suono stridente - non erano più calde e libere come una volta; e, sarà stata una fan­tasia, però a me non sembravano più le nostre.

 

IV

Ero io il più grande dei tre fratelli, e dovevo fare il possibile per sostenere e confortare gli altri - e lo feci; ed ognuno si comportò bene secondo il suo potere. Per il più giovane, che mio padre amava, perché a lui fu dato di ricevere i lineamenti del volto di nostra madre, dagli occhi az­zurri come il cielo, per lui la mia anima si commosse dolorosamente; ed aveva tutte le ragioni del mondo a straziarsi nel vedere un tale uccello in tale nido; perché egli era bello come il giorno (quando, nella libertà, il giorno era incantevole per me, come per gli aquilotti), come un giorno polare che non vede tramonto, finché non termina la sua estate, la sua insonne estate dalla lunga luce, il candido parto del sole; altrettanto puro e sereno era egli, gaio per sua indole naturale, pronto alle lacrime per null’altro che per i mali altrui; e allora queste scorrevano come ruscelli alpestri, a meno che non gli fosse dato alleviare il dolore che egli non sopportava dal vedere quaggiù.

 

V

L’altro fratello nei pensieri era altrettanto puro, ma creato per lottare anche contro altri uomini per i suoi ideali; robusto era di corpo, e d’un animo capace di ergersi in lotta contro il mondo intero, e di perdere la vita in prima fila per la causa in cui credeva: - ma non atto a languire nei ceppi; il suo spirito si appas­siva sotto i clangori del ferro; lo vidi silenziosamente immalinconire - ed altrettanto forse accadde all’animo mio; eppure io lo esortavo a resistere per rinvigorire quei miseri avanzi di un focolare a me tanto caro. Egli era un cacciatore di montagna, dove aveva inseguito il daino ed il lupo; per lui questo carcere era un abisso, e le catene ai piedi il peggiore dei tormenti.

 

VI

Il Lago Lemano si stende sotto le mura di Chillon; a mille piedi di profondità, lì sul fondale, le masse delle sue acque s’incontrano e scorrono; di tanto furono sprofondate le fondamenta degli immacolati merli di Chillon, che l’onda attorno stringe; e muraglia e onda hanno formato un doppio carcere - quale tomba vivente. L’oscura volta ove giacemmo sta sotto alla superficie del lago; giorno e notte lo udi­vamo gorgogliare; risuonante, batteva sopra alle nostre teste; e ho sentito gli spruzzi invernali schizzare attraverso le sbarre di ferro, quando i venti erano veloci e lascivi per il cielo giocondo; e allora la roccia stessa era scossa, e l’ho sentita tremare, ma senza tremore mio, perché avrei sorriso nel ve­dere giungere la morte che mi avrebbe liberato.

 

VII

Dissi che il mio fratello più prossimo negli anni si logorò; dissi che il suo pos­sente cuore rammollì; il cibo lo nauseava e lo respingeva; non perché fosse vile e rozzo, dato che eravamo usi al cibo del cacciatore, e poco c’importavano simili cose; il rifiuto c’era perché dal latte munto alla capra alpestre avevamo ora l’acqua del fossato, e il pane era di quello che le lacrime dei prigionieri hanno bagnato da millenni, da quando per la prima volta l’uomo rinchiuse i suoi simili come animali in una gabbia di ferro; ma che cosa importavano questi cibi a noi o a lui? Non questi consunsero il suo cuore e le sue braccia; l’anima di mio fratello era di tale tempra che si sarebbe agghiacciata perfino in un palazzo, se al suo libero respiro fosse stato impedito di spaziare per gli scoscesi fian­chi dei monti; ma perché trattenere più a lungo la verità? - Egli morì. Vidi, e non potei sostenergli la testa, né tenergli la mano morente - né morta - per quanto tenacemente mi sforzassi, ma invano, con muscoli e con denti a spezzare i miei lacci. Egli morì, e aprirono la sua catena e gli scavarono una tomba appena sotto la superficie di terra battuta e nello stesso gelido ambiente della nostra caverna. Come grazia, implorai che adagiassero il suo corpo in una terra dove la luce del giorno potesse battere – perché scioccamente un pensiero si agitava nella mia mente: che neanche nella morte il suo libero petto potesse riposare in simile carcere. Avrei potuto risparmiarmi la vana preghiera - essi crudelmente risero - e lo posarono là; e la terra spianata e senz’erba ricopri colui che tanto amammo; e sopra ad essa poggiava la sua vuota catena, degno monumento di tale assassinio.

 

VIII

Ma l’altro fratello, il prediletto e il fiore, il più amato fin da quando nacque, egli, con l’immagine della madre sul suo viso bello, il tenero amore della sua famiglia, il più dolce pensiero di suo padre martirizzato, la mia estrema cura, egli per il quale cercavo di risparmiare la mia vita affinché la sua potesse essere allora meno infelice e un giorno libera; egli pure, che fino ad allora aveva mantenuto l’animo indomito o per natura o per divina ispirazione  - egli pure fu colpito, e giorno per giorno appassì sul suo stelo. Mio Dio! spaventoso è vedere l’anima umana involarsi in qualsiasi forma, in qual­siasi stato: l’ho veduta sgorgare col san­gue, l’ho veduta sul tempestoso oceano dibattersi con moto disordinato e convulso; ho veduto il triste e orrendo letto del peccatore delirante dal terrore; ma quelli erano orrori, mentre questo fu un cupo dolore scevro di essi, ma lento e sicuro: egli appassì, e così calmo e mansueto, così lentamente consunto, così dolcemente de­bole, così sereno, eppure così tenero, gen­tile ed addolorato per coloro che stava per lasciare. E tutto il tempo aveva una guancia il cui rossore quasi era scherno alla tomba, e i cui colori lentamente sva­nivano come un raggio di iride morente; e aveva gli occhi splendenti di trasparente luce che quasi rendevano più luminoso quel carcere; mai ebbe parola di lamento, non un gemito sul suo immaturo destino, soltanto qualche breve allusione ai giorni più felici, qualche piccolo accenno di speranza per risollevare la mia, perché ero sprofondato nel silenzio e stavo perduto in quest’ultima perdita, di tutte la maggiore; ma poi i sospiri che egli avrebbe voluto trattenere, nati dalla debolezza della languente natura, sempre più lentamente tratti, divennero più e più radi. Ascoltai, ma non potei udire; chiamai, giacché ero pazzo dal terrore; sapevo che non c’era spe­ranza, ma non così il mio spavento voleva essere ammonito; chiamai, e credei di udire un rumore, con un potente sbalzo spezzai la mia catena e mi precipitai su lui, più non lo trovai; solo io mi movevo in questo nero antro, solo io vivevo, solo io respiravo i maledetti vapori della prigione; l’ultimo - l’unico! - il più caro legame tra me e l’eterno abisso, quello che mi legava alla mia ca­dente stirpe, era spezzato in questo luogo fatale. Uno sopra la terra, ed uno sotto, i miei fratelli ambedue avevano tratto l’ultimo respiro. Presi la mano che giaceva così immobile; ahimè! altrettanto fredda era la mia; non avevo la forza di muovermi o di lottare, ma sentivo che ancora vivevo - sensazione che rende folle quando sappiamo che ciò che amiamo più non vivrà. Non so perché non potevo morire; speranze terrene non ne avevo nessuna, solo la fede, e questa m’inibiva una morte da suicida.

 

IX

Che cosa poi m’avvenne allora e laggiù, io non so bene - mai non seppi: prima vi fu perdita di luce e d’aria, e quindi del­l’oscurità stessa: nessun pensiero avevo, nessuna sensazione, nessuna, tra le pietre stavo, anch’io pietra; e, appena con­scio dei miei pensieri, ero come il nudo sco­glio nella nebbia; perché tutto era vuoto, squal­lido e grigio: non era notte, non era giorno: nemmeno era la luce del carcere, così odiosa alla mia sfinita vista; ma era vuotaggine che assorbiva lo spazio, e fissità senza luogo; non v’erano stelle - non v’era terra - non tempo - non pausa - non vi­cenda - non bene - non crimine - ma silenzio, e un immobile respiro che non era né di vita né di morte; un mare di stagnante inazione, cieco, infinito, muto e immobile!

 

X

Uno zampillo di luce balenò nella mia mente - era il gorgheggio di un uccello; cessò e quindi riprese, il più dolce canto che orecchio mai avesse udito, e il mio gliene fu grato, finché i miei occhi traboccarono di lacrime per la lieta sorpresa, e in quel momento non potevano vedere che ero sposato all’infelicità; ma in seguito a grado a grado faticosamente, i miei sensi tornarono ai loro usati sentieri; vidi le mura, il fondo del car­cere chiudersi attorno a me lentamente nel modo solito; vidi il chiarore del sole strisciare come prima; ma nella fessura, da dove la luce veniva, posava l’uccello, altrettanto do­cile ed addomesticato, più anzi, che se fosse stato sull’albero; un bel volatile dalle ali azzurre, e dal canto che raccontava mille eventi, e sembrava dirli tutti per me! Mai avevo visto un animale simile, più lo rivedrò; come me, sembrava avere bisogno di un compagno, ma lungi era dall’essere così abbandonato, ed era venuto per amarmi quando nessuno viveva per riamarmi così, e rianimandomi dall’orlo del mio carcere, m’aveva ricon­dotto a sentire e pensare. Non so se fino allora fosse stato libero, oppure se avesse infranto la sua gabbia per posarsi sulla mia (ma conoscendo bene la prigionia, dolce uc­cello, non potrei desiderare la tua!), oppure se, sotto alate spoglie, fosse un ospite di­sceso dal Paradiso; e il cielo perdoni quel mio pensiero che allora mi fece e piangere e sorridere, dato che a volte pensavo che potesse essere l’anima di mio fratello discesa a me; ma poi l’uccello volò via; era dunque cosa mortale, l’avevo immaginato, perché altrimenti non sarebbe in quel modo scomparso;  né due volte m’avrebbe lasciato cosi doppiamen­te solo, solo come il cadavere nel suda­rio, solo come una nuvola solitaria,un’unica nuvola in un giorno di sole quando tutto il resto del cielo è sereno, come increspamento nell’aria, che non dovrebbe apparire quando il cielo è azzurro e la terra gioiosa.

 

XI

A quel punto un certo cambiamento avvenne nel mio destino; i miei carcerieri divennero compassionevoli; non so che cosa li rendesse tali; essi erano induriti agli spettacoli del dolore; ma così avvenne; la mia catena spezzata restò con gli anelli non ricongiunti, ed era già libertà per me il poter andare per la mia cella da parte a parte e su e giù e di traverso, e il calpestarla per ogni dove; e attorno ai pilastri andavo, a uno a uno, ritornando dove il mio moto era iniziato, soltanto schivando nel camminare le tombe dei miei fratelli, non segnate da alcun rialzo di terreno; poiché se mi sembrava che con di­sattento piede il mio passo profanasse il loro umile letto, il mio respiro usciva aspro ed affannoso, e il mio cuore compresso si abbatteva inerte e affranto.

 

XII

Mi scavai uno scalino nella muraglia. Non tanto per fuggire di lì, perché essendo morti quelli che mi avevano amato in vita, ora l’intera terra non sa­rebbe stata per me che una più vasta pri­gione; non figli avevo, né padre, né familiari, nessuno partecipe della mia infelicità; riflettei a questo e ne gioii, giacché il pensiero di essi là fuori mi avrebbe reso folle; ma ero intenzionato a salire fino alle mie finestre sbar­rate, e di posare ancora una volta sulle alte montagne il tranquillo sguardo di amorosi occhi.

 

XIII

Vidi le montagne - ed erano le stesse; non erano mutate, come me, d’aspetto; vidi in alto i loro millenari ghiacciai - e sotto il loro vasto e lungo lago, e l’azzurro Rodano, nella massima ricchezza delle sue acque; udii i torrenti rimbalzare e scrosciare sulle rocce scavate e sugli spezzati arbusti; vidi la distante città dalle bianche mura, e vele ancora più bianche che passavano quasi aeree; e poi c’era un’isoletta che mi sorrideva di faccia, l’unica in vista; una verde isoletta, che non sembrava o era appena più larga della superficie della mia prigione, ma in essa c’erano tre alberi alti, e sopra vi soffiava la brezza alpestre, e presso si agitavano le acque, e sul fazzoletto di terra cre­scevano giovani fiori di soave profumo e colore. I pesci nuotavano lungo le mura­glie del castello e tutti sembravano pieni di gioia; l’aquila si librava sull’impetuoso vento; mi sembrava che mai avesse volato così ve­locemente come mi apparve allora; e altre lacrime mi riempirono gli occhi e mi sentii turbato  e avrei voluto non aver lasciato i miei recenti ceppi; e quando di nuovo discesi, l’oscurità della mia tetra dimora calò ancora su di me come un pesante fardello; era come una tomba nuovamente scavata che si ri­chiudeva sopra uno che tentammo di sal­vare, eppure il mio sguardo, troppo stan­co,  aveva quasi bisogno di un tal riposo.

 

XIV

Forse furono mesi o anni, non ne tenni conto, non me ne curai, non avevo speranza alcuna che mi facesse sollevare gli occhi e li tergesse dalla triste nebbia. Infine vennero degli uomini a liberarmi: non ne domandai il perché, non mi curai di dove mi portassero; ormai era per me indif­ferente essere incatenato o libero; avevo imparato ad amare la disperazione. E così, quando finalmente essi apparvero e tutti i miei ceppi furono gettati da parte, queste pesanti muraglie erano diventate per me un solitario asilo:  e tutto mio! E quasi sentivo come se fossero venuti per strapparmi da un secondo mio focolare; avevo stretto amicizia con i ragni e li avevo osservati nel loro oscuro e silenzioso lavoro; avevo veduto i topi giocare al chiaro di luna, e perché dovevo io essere meno sensibile di essi? Tutti eravamo abitanti di un medesimo luogo, e io, sovrano di ambedue queste razze, avevo il potere di uccidere, eppure, strano a dirsi, avevamo imparato a vivere in pace, le mie stesse catene e io di­ventammo amici, fino a tal punto una lunga comunione tende a fare di noi ciò che sia­mo;  perfino io non ebbi indietro la mia libertà senza un sospiro.

Traduzione di Margherita Stein

 

 

 

Claudio Di Scalzo

Byron di qui e di là

Quando Lord Byron nel 1916 arriva in Svizzera, dove poi scriverà Il prigioniero di Chillon, ha già avuto modo di distillare dal suo spirito afflitto da malinconia e dal suo narcisismo sfacciato (definizione di Goethe) opere pregevoli, in alcuni casi assolutamente innovative, e di incorniciare la propria biografia con intagli e riccioli stravaganti a non finire. Protagonista della società letteraria europea così come dell’immaginario sentimentale ed erotico. I suoi viaggi in Portogallo, Spagna, Albania, Grecia e Italia hanno ispirato il Childe Harold’s Pilgrinage (Il pellegrinaggio del cavaliere Aroldo), sorta di diario sentimentale dal quale attingeranno musicisti e letterati in procinto di scoprire le virtù del romanticismo unito ai viaggi esotici. Dopo “Aroldo” verranno The Giaour (Il Giaurro), The Corsair (Il Corsaro), The Siege of Corinto (L’assedio di Corinto) e anche queste opere in ambito italiano faranno battere le ciglia alle contessine e consiglieranno tali ardori anche al nostro Leopardi: basta leggere Consalvo. Dunque in Svizzera Byron - fuggito dall’Inghilterra anche per lo scandalo della sua separazione dalla moglie Lady Anne Isabella Milbancke - arriva con alle spalle un ampio spettro – e questa è una battuta vista la dimestichezza del poeta con i fantasmi – di pubblicazioni celebri. Nella terra di Guglielmo Tell, oltre al Prigioniero di Chillon, scriverà Manfred (Manfredo) che diverrà un vero e proprio manifesto romantico una volta trascritto in musica da Schumann.

Il Prigioniero di Chillon è un racconto in versi e solitamente nella traduzione viene reso in prosa poetica. Così ha operato la traduttrice Margherita Stein. Limitando di molto l’enfasi e le sovrabbondanze presenti in passate traduzioni. Chillon si trova sul lago di Ginevra presso le bocche del Rodano. Il castello era già entrato nella letteratura come luogo, infatti Rousseau nei suoi dintorni vi ambientò episodi legati ad Eloisa. Il protagonista è un misterioso prigioniero, tenuto nel castello in totale isolamento e questa condizione lo porta a una sorta d’identificazione irreale con l’ambiente circostante e ad assistere alla fantastica visione dell’uccello del Paradiso.

Il racconto in versi venne scritto da Byron dopo che ebbe visitato, con l'amico Shelley, il castello di Chillon. Era il giugno del 1816. La trama s’ispira alla vicenda storica di Francesco di Bonivard (1493-1570), un protestante imprigionato nel castello da Carlo III di Savoia. Viene raccontata la sofferenza di un martire per la libertà. Disposto alla sofferenza totale piuttosto che a rinnegare le proprie idee. Byron dilata questo aspetto antioppressivo - e per questo il racconto diventa anche “politico” e utilizzato dai patrioti delle varie nazionalità oppresse contro i sovrani assoluti - e vi innesta una forte simbologia; l’uccello dalle piume azzurre, che trasfigura la natura del prigioniero e il mondo circostante. Letteratura e vita e politica in un trittico indissolubile.

Byron dopo la Svizzera riparerà a Venezia e a Pisa. Prenderà contatti con i mazziniani. Sperpererà il suo patrimonio e sembra anche la sua psiche. Assisterà alla morte di Shelley. E finirà a trentasei anni la sua avventura in Grecia a Missolungi. Patriota per l’indipendenza del paese dalla Turchia. L’intellettuale impegnato proverà il brivido della prassi politica e costruirà, morendo, il suo mito. Che ovviamente, appena sepolto in molti, si metteranno a sgretolare sia sul piano letterario che umano. Potenza dei biografi e dei critici. Ma a noi interessa il suo viaggio in Svizzera e il “racconto” che scrisse sopra una prigionia ai limiti del plausibile. Poesia della metamorfosi e dell’allucinazione compresa.

 

 


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