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Margherita Stein

:: Stig Dagerman: Consolazione, nostra necessità. Traduzione Margherita Stein
10 Dicembre 2012

  
 
 
 
Lo scrittore svedese nasce nel 1922 a Älvkarleby. E morirà suicida a 31 anni. Scriverà romanzi, poesie, racconti, drammi. Ricordiamo Il viaggiatore, L’isola dei condannati, Autunno tedesco. Viene considerato un esistenzialista o almeno inseribile nella nebulosa esistenzialista dove, come accadde per Camus o Pavese, la biografia s’intreccia con la morsa della scelta, della rivolta anarchica e della solitudine insopportabile.

 

“Vårt behov av tröst”, tradotto in alcuni casi come “La consolazione impossibile”, o “Il nostro bisogno di consolazione”, viene pubblicato nel 1952, due anni prima del suo suicidio. Ho scelto un altro titolo (Margherita Stein)
 
 
STIG DAGERMAN
 
CONSOLAZIONE: NOSTRA NECESSITÀ

 

Sono estraneo alla fede e non sarà possibile, dunque, per me, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può sopportare il timore che la sua vita sia soltanto uno sconclusionato gironzolare verso una morte sicura. Non ho avuto in eredità né un dio né un luogo stabile sulla terra da dove ricevere le cure di un dio. Non ho ereditato neppure la risorsa furente dello scettico, la vocazione al deserto del razionalista o l’ardente ingenuità dell’ateo. Non mi provo nemmeno allora a gettare sassi sulla donna che crede in cose delle quali dubito o sull’uomo che incensa il suo dubbio come se anch’esso non fosse avvolto dalle tenebre. Queste pietre colpirebbero anche me, perché di un fatto sono certo: che la necessità della consolazione che ha l’uomo non può essere soddisfatta.
Io stesso sono in cerca di consolazione come un cacciatore insegue la selvaggina. Se la vedo sfrecciare nella foresta, premo il grilletto. Sovente il mio colpo manca il bersaglio, ma a volte una preda posso raccogliere. Poiché sono al corrente che la consolazione ha la consistenza di una brezza ventosa fra i rami dell’albero, m’affretto a impadronirmi della vittima.
Cosa tengo allora tra le braccia incrociate?
Dato che sono solo non può che essere una donna amata o un compagno di strada triste. Dato che sono un poeta un arco di parole tendo sentendomi invadere dalla gioia e dallo spavento. Dato che sono un prigioniero un’inaspettata fessura di libertà discosto. Dato che sono minacciato dalla morte un animale caldo e vivo palpo, un cuore che batte ironico. Dato che sono minacciato dai gorghi del mare uno scoglio impossibile da smuovere abbranco.
Ci sono anche consolazioni che mi raggiungono come ospiti non graditi e accumulano nella mia camera gorgoglii volgari: io sono il tuo desiderio – amale tutte! io sono la tua inclinazione – abusa di me come di te stesso! io sono l’amore per il piacere – soltanto chi brama vive! Io sono la tua solitudine – disprezza ogni essere umano! Io sono la nostalgia della morte – taglia!
Stando in equilibrio su di un asse sottile. Scopro la mia esistenza minacciata da due forze: da un lato dalle ganasce avide dell’eccesso, dall’altro lato c’è l’amarezza che si nutre di se stessa. Però io mi rifiuto di scegliere tra lo sgregolamento dei sensi e l’ascesi spirituale, anche se la conseguenza sarà un strazio continuo. Non mi basta conoscere che ogni atto può essere scusato in nome della legge del servo arbitrio. Quanto cerco non è una scusa per la mia vita, ma l’opposto di una giustificazione: l’espiazione. Mi prende infine il pensiero che ogni consolazione che non contempli la mia libertà sia ingannevole, non altro che la riflessa immagine della mia disperazione. Quando infatti quest’ultima suggerisce: concediti allo sconforto, perché il giorno è tenuto tra due notti, la falsa consolazione grida: spera tanto la notte è racchiusa tra due giorni.
Di una consolazione che illumini necessita l’uomo, non di una consolazione che si presenti come un gioco di parole. E chi aspira alla malvagità, vale a dire un uomo che sta agendo come se ogni sua azione fosse difendibile, dovrebbe avere almeno la bontà di accorgersi quando riesce nel suo intento.
Non c’è persona al mondo in grado di elencare tutti i casi nei quali la consolazione è una necessità. Nessuno sa quando l’oscurità cala, e la vita non ha soluzione che può trovarsi dividendo la luce per la tenebra e i giorni con le notti, è invece un percorso colmo d’imprevisti tra luoghi inesistenti. Infatti posso passeggiare sulla spiaggia e all’improvviso intuite la terribile sfida dell’eternità alla mia stessa esistenza nell’incessante avanti e indietro delle onde e nell’inarrestabile slancio del vento. Cos’è allora il tempo se non una consolazione perché nulla di quanto è umano può essere perenne? E che consolazione da pezzenti, da arricchire soltanto chi ha un animo da svizzero.
Posso stare seduto innanzi al fuoco acceso nella più confortevole delle stanze e, improvvisamente, intuire l’accerchiamento della morte. E’ nelle fiamme, in tutti gli oggetti acuminati che mi circondano, nella gravità del tetto e nella dislocazione massiccia delle pareti, è nell’acqua, nella neve, nel calore e nel mio sangue. Cos’è allora la sicurezza possibile dell’uomo se non una consolazione perché la morte è prossima alla vita? E che consolazione minuscola è questa, visto che riesce soltanto a farci venire in mente quanto vorremmo dimenticare!
Riempire posso tutti i fogli pallidi con le più riuscite combinazioni di frasi che nascono dal mio cervello: Siccome aspiro ad assicurarmi che la mia vita non sia priva di senso e che io non stia solo sulla terra, sistemo le parole in un libro donandolo al mondo. Il mondo contraccambia con dei soldi, con la fama e con il silenzio. Ma che me ne frega dei soldi, che me ne frega di contribuire a rendere più ampia e più sagomata la letteratura? L’unica cosa che m’importerebbe avere è quella che di sicuro non ottengo affatto: l’assicurazione che le mie parole hanno sfiorato il cuore del mondo. Cos’è allora il mio talento se non una consolazione per la mia vita solitaria? Però che consolazione spaventosa, riesce solamente a farmi vivere la solitudine con una intensità quintuplicata.
Posso vedere la libertà simbolizzata da un animale che attraversa rapido la radura e sentire una voce che mormora: vivi in modo semplice, prendi quanto desideri e non temere le leggi! Ma cos’è questo buon consiglio se non una consolazione perché la libertà non esiste? E che consolazione crudele, per chi sa che occorrono milioni di anni a un essere umano per trasformarsi in lucertola! Posso alfine scoprire che questa terra è una fossa comune dove Salomone, Ofelia e Himmler riposano fianco a fianco. Posso ricavarne l’ammaestramento che il mostro e l’infelice muoiono la stessa morte del saggio, e che la morte può allora apparire la consolazione per una vita sprecata. Che terrificante consolazione, però, per chi nella vita vorrebbe vedere una consolazione alla morte!
Non possiedo una filosofia nella quale abitare come l’uccello nell’aria e il pesce nell’acqua. Tutto quanto possiedo è un duello, e questo duello viene combattuto in ogni momento della mia vita tra le false consolazioni, che soltanto accrescono l’impotenza e rendono più profonda la mia disperazione, e le vere consolazioni che mi guidano a una temporanea liberazione. Dovrei probabilmente affermare: la vera consolazione, perché a rigore non c’è per me che una vera sola consolazione, e questa mi dice che sono un uomo libero, un individuo inviolabile, una persona sovrana entro i miei limiti.
Ma la libertà comincia con la schiavitù e la sovranità con la soggezione. Il più sicuro indizio della mia mancanza di libertà è il mio timore di vivere. Il comprovato segno della mia libertà è che il timore arretra e lascia spazio alla serena gioia dell’indipendenza. Sembra che io abbia bisogno della dipendenza per provare infine la consolazione di essere un uomo libero e questo è certamente vero. Alla luce delle mie azioni mi rendo conto che tutta la mia vita sembra avere per scopo quello di procacciarmi delle pietre da attaccarmi al collo. Quanto potrebbe darmi la libertà mi dà schiavitù e sassi al posto del pane.
Uomini differenti hanno padroni differenti. Io, se devo fare un esempio, sono talmente schiavo del mio talento che non ho l’ardire di farne uso per paura d’averlo perso. Sono poi talmente schiavo del nome che porto da non osare quasi scrivere una riga per paura di arrecargli danno. E quando infine sopravviene la depressione, sono schiavo anche di questa. Il mio desiderio più grande diventa quello di trattenerla, il mio piacere più grande è sentire che il mio unico valore stava in ciò che credo di aver perduto: la capacità di cavare bellezza dalla mia disperazione, dal mio disgusto e dalle mie debolezze. Con gioia amara voglio vedere le mie case crollare e me stesso tumulato nell’oblio. Ma la depressione ha sette scatole, e nella settima sono riposti un pugnale, una lametta da barba, un veleno, un’acqua profonda e un salto da una grande altezza. Finisco per diventare schiavo di tutti questi strumenti di morte. Mi seguono come cagnacci, o sono io a seguirli come un cane. E mi pare di capire che il suicidio è l’unica prova della libertà umana.
Ma da una direzione di cui ancora non ho idea si avvicina il miracolo della liberazione. Può succedere sulla spiaggia, e la medesima eternità che poco fa ha suscitato il mio spavento è adesso testimone della mia nascita alla libertà. In cosa consiste dunque questo miracolo? Semplicemente nella scoperta improvvisa che nessuno, nessuna potenza e nessun essere umano , ha il diritto di esigere da me tanto da far scomparire la mia voglia di vivere. Perché se non esiste questa voglia, cosa può esistere allora?
Dal momento che mi trovo sulla riva del mare, dal mare posso apprendere. Nessuno ha il diritto di pretendere dal mare che faccia galleggiare tutte le navi o di esigere dal vento che sospinga costantemente ogni vela. Così nessuno ha il diritto di pretendere da me che la mia vita diventi una prigionia al servizio di certe funzioni. Non il dovere prima di ogni cosa, ma prima ogni cosa la vita! Come ogni essere umano, devo avere diritto a dei momenti in cui posso mettermi da parte e intuire di non essere solo un elemento di una massa nominata popolazione terrestre, ma di essere un’unità che agisce in modo autonomo.
Soltanto in questi momenti posso essere libero dinanzi a tutte quelle consapevolezze sulla vita che mi hanno in precedenza condotto alla disperazione. Posso riconoscere che il mare e il vento non potranno che sopravvivermi, e che l’eternità non si cura di me. Ma chi mi chiede di curarmi dell’eternità? La mia vita è breve solamente collocandola sul patibolo del calcolo del tempo. Le possibilità della mia vita sono limitate solo se faccio il conto della quantità di parole o di libri che avrò il tempo d’inventare prima della mia morte. ma chi mi chiede di fare questa operazione matematica? Il tempo è una falsa misura per la vita. Il tempo è in fondo uno strumento di misura privo di valore, perché lambisce esclusivamente le mura esterne della mia vita.
Ma tutto quanto mi accade di importante, tutto quanto conferisce alla mia esistenza il suo contenuto stupefacente - l’incontro con una persona amata, una carezza sulla pelle, un mano tesa nel bisogno, un notturno al chiar di luna, un’escursione in barca sul mare, la gioia che offre un pargolo, il brivido di fronte al sublime – tutto ciò si svolge totalmente al di fuori del tempo. Che io incontri la bellezza per un secondo o per cento anni è del tutto indifferente. Non solo la beatitudine si trova al di fuori del tempo, ma essa nega anche ogni relazione fra il tempo e la vita. 
Faccio scivolare dunque il fardello del tempo dalle mie spalle e, con esso, quello delle prestazioni che da me si pretendono. La mia vita non è qualcosa che si debba misurare. Né il salto del capriolo né il sorgere dell’astro sono delle prestazioni. E nemmeno una vita umana è una prestazione, ma uno svilupparsi e ampliarsi verso la perfezione. E ciò che è perfetto non dà prestazioni, opera nella quiete. È insensato sostenere che il mare esiste per sorreggere chiglie e delfini. Lo fa, certo, mantenendo però la sua libertà. Ed è altrettanto insensato affermare che l’uomo esiste per qualcos’altro che non sia il vivere. Certo, egli alimenta macchine o scrive libri, ma potrebbe fare qualsiasi altra cosa. L’essenziale è che faccia quel che fa conservando la propria libertà, e con la limpida coscienza di avere in sé – come ogni altro dettaglio della creazione – il proprio fine. Egli riposa in se stesso come un sasso sulla sabbia.
Posso anche essere libero davanti al potere della morte. Certo, non potrò mai svincolarmi dal pensiero che la morte tampina i miei passi, e tanto meno negare la sua presenza. Ma posso ridimensionare la minaccia fino ad annullarla non ancorando la mia vita a punti d’appoggio tanto malfermi come il tempo e la fama.
Non è invece in mio potere rimanere continuamente rivolto verso il mare e confrontare la sua libertà con la mia. Verrà il tempo in cui dovrò indirizzarmi verso la terra e affrontare i programmatori della mia oppressione. Sarò allora costretto a riconoscere che l’uomo dà alla propria vita delle forme che, almeno in apparenza, sono più forti di lui. Con tutta la mia libertà appena conquistata non mi è possibile annientarle, posso soltanto sotto il loro peso dolermi. Mi è possibile però discernere, tra le richieste che pesano sull’uomo, quali sono irragionevoli e quali ineludibili. Un tipo di libertà, mi rendo conto, è perduto per sempre o per un tempo vasto. Ho sulle labbra quella libertà che deriva dal privilegio di essere padrone del proprio elemento. Ha il suo elemento il pesce, ha il suo l’uccello, il suo ha anche l’animale di terra. L’uomo invece si muove in questi elementi correndo tutti i rischi dell’intruso. Ancora Thoreau aveva la foresta di Walden, ma dov’è ora la boscaglia nella quale l’uomo possa dimostrare che è possibile vivere in libertà, al di fuori delle irrigidite forme della società?
Sono costretto a rispondere: in nessun luogo. Se voglio vivere in libertà, dev’essere – in questo momento – all’interno di queste forme. Prendo atto che il mondo è più forte di me. Al suo potere non ho altro da opporre che me stesso, il che, d’altra parte, non è poco. Finché infatti non mi lascio sopraffare, sono anch’io una potenza. E la mia potenza è temibile finché ho il potere delle mie parole da contrapporre a quello del mondo, perché chi prigioni eleva s’esprime peggio di chi costruisce la libertà. Ma la mia potenza sarà illimitata il giorno in cui avrò solo il mio silenzio per proteggere la mia inviolabilità, perché non esiste lama capace di incidere un vivente silenzio.
Questa è la mia unica consolazione. Immagino che le ricadute nella disperazione saranno tante e profonde, ma il ricordo del miracolo della liberazione mi sospinge come un’ala verso una vertiginosa meta: una consolazione più bella di una consolazione e più vasta di una filosofia, vale a dire una ragione di vita.
 
Traduzione di Margherita Stein
 
 
 


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