Claudio Di Scalzo
IMPARANDO DA SHERLOCK HOLMES
(Altro novembre, 20 IX 2008) - Cara Margherita Stein,… complice una febbre influenzale grifagna ho riletto “La valle della paura” di Arthur Conan Doyle. L’edizione, negli Oscar, tiene in copertina un memorabile disegno di Karel Thole ed è illustrata con incisioni e foto del maniero di Birlston. L’acquistai, il libro, nel 1972. Lo rilessi nel 1990 aggiungendovi un ex Libris perché a quel tempo tu li collezionavi ed io li disegnavo. M’è tornato in mente il tuo invito, da devota surrealista attenta alla letteratura popolare o d’avventura - ci intendevamo anche per questo mia tedesco-lucchese tragicante! - a trovare nell’apparente facilità di certe descrizioni o capitoli o trame il nutrimento all’opera di fantasia che si fa fantasie sulla letteratura. Anche per questo il mistero di un efferato delitto e le mosse di Sherlock Holmes che indaga mi hanno con la febbre aperto ad una scoperta che decreto fondamentale. Holmes e Watson e l’ispettore di Scotland Yard Mac Donald stanno davanti al fossato del maniero e osservano e attendono che qualcosa accada dietro ai vetri della stanza dove si è consumato il delitto. Se tutto funziona come Holmes si aspetta il mistero verrà svelato. Ma i suoi compagni non capiscono e sono di cattivo umore per il freddo della notte.
-“Ma si può sapere perché siamo qui? Francamente io trovo che lei potrebbe trattarci con maggiore sincerità”. Holmes rise. “Watson sostiene che io sono il drammaturgo della vita reale” disse. “Una certa inclinazione artistica vibra sempre dentro di me e si ostina a pretendere una rappresentazione con una sapiente regia. Certo, caro Mac, la nostra professione sarebbe ben squallida e grigia se a volte noi non disponessimo la scena in modo da esaltare e rendere memorabili i nostri risultati. L’accusa rozza, il colpo brutale sulla spalla; come può essere giudicato un simile esito? Ma l’illazione rapida, l’agguato sottile, l’intelligente previsione di eventi futuri, la prova trionfante di teorie audaci, non costituiscono forse tutti questi elementi l’orgoglio e la giustificazione della nostra vita di lavoro? In questo momento lei vibra con l’emozione e con l’ansia del cacciatore. Dove sarebbe questa emozione se io fossi preciso come un orario ferroviario? Le chiedo semplicemente un po’ di pazienza, caro Mac, e tutto tra poco apparirà chiarissimo”.
Karel Thole, copertina.
Ho trascritto per esteso il brano dal romanzo perché per ottenere un quadro narrativo, o poeticamente stabile entro cui riversare il linguaggio, bisogna che l’autore, magari con i suoi personaggi, che ancora non hanno inteso il senso dell’indagine oppure del tutto il loro ruolo, stia nascosto dietro accennati capitoli come se fossero pungenti alberelli da giardino nella notte. L’autore al ritmo della sua esperienza sul Cosa cercare e Come cercarlo sta davanti alla finestra della pagina bianca in attesa che s’illumini, si scriva, rivelando il senso del freddo notturno, della fatica, dei dubbi, del rischio che corre (e con lui i personaggi) se chi entrerà nella stanza non fornirà la soluzione compiendo l’atto che ci si aspetta da lui. L’Autore conosce e spera che l’atto si compia, e speranza e constatazione, ma potrebbe esserci anche l’abbaglio, in una indagine non si sa mai tanto più nella scrittura, sempre sarebbe valsa la pena stare nel buio invernale dinanzi all’acqua di un fossato, a delle mura antiche, anche quelle del romanzo lo sono, a dei vetri trasparenti,… perché la scena è stata allestita al meglio, l’Autore ha operato diventando il Drammaturgo della vita reale per consegnarla al reale della finzione. La regia e la scena a questo devono mirare, cara Margherita, a che la rappresentazione sia sapiente e cresciuta nel dissidio, o scissione?, dell’esperienza, ma solo per finta, tra immaginazione e candela poematica del libro da scrivere che sa come farsi consumare.
Ecco, complice il termometro bollente come ho riletto il quarto ed ultimo romanzo di Arthur Conan Doyle.