Margherita Stein nella voluttà mio chiodo fisso in campagna e città
Poesia visuale con interventi su cartone.
CDS, 1979
Sull'interpretazione della PROVINCIA
scrive anche Karoline Knabberchen con ermeneutica diversa da quella della Stein
clikka
Provincia aperta massima scoperta
Margherita Stein
SULLA FORMAZIONE FILOSOFICA TEMPESTOSA IN PROVINCIA
1979
Secondo la squamazione, bel pesciolone, hegeliana, scherzo con la parola Tradizione (impara il rimare-remare fluente dell’educazione philosofica fotografo di Vecchiano), PENSARE è il disporsi, polsi-torsi-corsi emisferi cerebrali, con la mente alla comprensione del proprio Tempo. Ricovero infiorato, mormoro. Certo! Dico decisa, ma sempre a partire da un essenziale riorientamento della “pensosità” (Nachdenklichkeit) - a meno di non rifiutare anche questa disposizione naturale - sull’asse della propria appartenenza/pro-venienza. In PROVINCIA. Dentro questo ri-orientamento prende avvio quell’incamminarsi nel Pensiero che chiamo (ti prendo all’amo Accio? Perché ti amo?) “deterritorializzazione”, oppure sradicamento (Entwurzelung); con il che resta altresì inteso che pensare non è affatto un ritorno alla tana, alla madre: quanto una “dialettica”, se così vogliamo dire, tra RADICAMENTO (traducente ma non in “maniera” permanente, funzione identitaria protettiva domestica placentare) e DISLOCAZIONE (Traducente in Cima Tempestosa funzione dispersiva opacizzante secretativa: un sottrarsi alla generale struttura ispettivo/ecografica dello Stato della Filosofia: insomma un venir su da solo, come HEATHCLIFF). Dentro questo ri-orientamento Pensare significa pertanto, innanzitutto (gusta questo frutto il Figlio di Lalo che tu pa’ senza studi tiene sul camion OM), liberarsi delle varie ostruzioni e costruzioni messe in atto dai cosiddetti ricercatori e maestri “autorizzati” (ne ho una bella sfilza conosciuta all’Università di Pisa, bascullante tra facoltà di Filosofia e Storia e Letterature!); ciò richiede in primis d’es il riconoscimento della propria “appartenenza-provenienza”: ho un marchio infamante da qualche parte impresso sul corpo, un segno inequivocabile nello sguardo, un’impronta inoccultabile nella frase che sibilo: è segno della tana, della lupo-sità, della cattività. Tutto ciò io vi rappresento. Ciò nondimeno ora parlo, parlo! Cumme pare a mia cun té sanzo tè.
«Ma forse che parlare serve?» Il mio nome rimanda al fiore per eccellenza da “sfiorare” petalo dopo petalo; ma se i petali a volte tra i morbidi son taglienti come lamette, ehmm, ferire chi ti vuole asservire! Rima anche per il mio lettore, unico, Claudio Di Scalzo(sdoppiato) Fabio Nardi.